Glaucoma e gravidanza

(da un lavoro del dott. Roberto Carassa, Oculista presso l’Ospedale S. Raffaele di Milano)

 

Il trattamento della patologia glaucomatosa durante il periodo della gravidanza e dell'allattamento è molto complesso in quanto bisogna riuscire a tenere sotto controllo la malattia salvaguardando al contempo il bambino .


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Il trattamento del glaucoma durante la gravidanza è un problema particolarmente serio in quanto presuppone delle scelte specifiche che tengano conto sia del controllo della malattia che della salvaguardia del bambino. L'evento è indubbiamente raro, considerato che la malattia interessa essenzialmente la popolazione anziana. Tuttavia, la maggiore frequenza di gravidanze oltre i 40 anni di età nonché le migliori possibilità di diagnosi precoce del glaucoma rendono il problema quanto mai attuale. Purtroppo poco si sa e ancor meno viene detto sulle possibili scelte terapeutiche ipotonizzanti in pazienti gravide o in allattamento. La maggior parte degli studi disponibili in letteratura, che in assoluto sono ben pochi, risale agli anni Ottanta e riguarda molecole oggi sempre meno utilizzate. Di recente è stato tuttavia pubblicato un articolo di Sandra Johnson e collaboratori che, partendo da un caso clinico, hanno affrontato questo particolare problema enfatizzandone le implicazioni e le difficoltà.

Il caso riguardava una giovane di 30 anni al settimo mese di gravidanza e affetta da glaucoma secondario in occhio destro. La donna, precedentemente in terapia con timololo 0,5%, brimonidina e latanoprost, era stata sottoposta ad argon laser trabeculoplastica durante la sesta settimana e ciò aveva consentito di sospendere la brimonidina e il latanoprost alla decima settimana. A un ulteriore controllo, dopo 4 mesi, la donna aveva sospeso anche il timololo e presenta va un tono oculare di 45 mmHg. La perimetria mostrava un doppio scotoma arciforme relativo e incompleto e al fundus era evidente una papilla con C/D di 0,7 e marcato assottigliamento del margine neuroretinico nei quadranti superio re e inferiore. Gli Autori a questo punto si domandavano cosa fosse consigliabile fare. Myers e Gross, commentando il caso, suggerivano di discutere in dettaglio i rischi e i benefici della terapia medica e di quella chirurgica. In particolare, considerando il tipo di glaucoma (post-traumatico in persona giovane, afachica e con esiti di trapianto corneale), l'intervento chirurgico suggerito era un impianto drenante. Veniva così deciso di intraprendere inizialmente una tera pia medica associata a occlusione dei puntini lacrimali con lo scopo di ridurre l'assorbimento sistemico. I farmaci impiegati erano il timololo gel (che presenta una minore con­centrazione sistemica rispetto a quello con veicolo tradizio nale), la dorzolamide (che garantisce una minore inibizione dell'anidrasi carbonica sistemica rispetto all'acetazolamide) e la brimonidina. Tutto ciò non risultava purtroppo in grado di controllare il tono e, dal momento che la giovane si ripresentava dopo 6 settimane con una tensione di 50 mmHg, si decideva per un incremento terapeutico. Il latanoprost non veniva impiegato considerando il ruolo che le prostaglandine hanno nell'induzione del travaglio, ma si aggiungeva un miotico forte, l'ecotiophate, che, essendo un ammonio quaternario, a differenza della pilocarpina attraversa con difficoltà la membrana amniotica. Tale aggiunta consentiva di ottenere dopo 2 giorni una tensione oculare di 21 mmHg.

Considerando a questo punto che la gravidanza era a ter mine, si decideva di indurre il parto, tuttavia senza successo. Nel frattempo si sviluppava un'intolleranza all'ecotiophate che veniva sospeso con un rialzo tensionale a 42 mmHg. Finalmente l'induzione forzata del parto aveva successo e veniva dato alla luce un neonato maschio sano. Dal momento che la madre decideva di allattare, venivano ovviamente a crearsi ulteriori difficoltà con la terapia medica che, passando nel latte materno, può indurre effetti collaterali nel neonato. Nel tentativo di ridurre questi rischi al minino, il neonato veniva monitorato attentamente, la terapia veniva somministrata immediatamente dopo l'allatta mento (sapendo che il picco di concentrazione nel latte siverifica dopo 30-120 minuti) e si continuava a impiegare l'occlusione dei puntini lacrimali. Nonostante ciò la pressio­ ne non si mostrava controllata e risultava necessario esegui re un impianto drenante; quest'ultimo permetteva, con l'impiego aggiuntivo di timololo e dorzolamide, di ottenere un controllo tensionale. Il neonato non evidenziava comunque alcun problema correlato.

Questo caso dimostra le difficoltà e i problemi che devono essere affrontati in una donna con glaucoma durante il periodo della gravidanza e dell'allattamento.

In generale, nessun farmaco ipnotizzante è sicuro per il feto durante la gravidanza o per il neonato durante l'allattamento. Infatti tutte le molecole impiegate vengo no assorbite a livello sistemi co e possono attraversare la barriera placentare ed entrare nel circolo fetale, o posso no concentrarsi nel latte ma terno e di conseguenza esse re poi assorbite dal neonato.

 

Gravidanza

 

Un fattore determinante nella capacità di una mole cola dì attraversare la bar riera placentare è il legame con le proteine plasmatiche. Infatti, solo le molecole libe re sono attive e possono ol trepassarla. Il passaggio at­ traverso la placenta dipende da alcune caratteristiche della molecola quali la liposolubilità, il grado dì ionizzazione, il peso molecolare, la via di assorbimento e la localizzazione tessutale, e da alcune proprietà placentari quali il flusso ematico ma terno e fetale, il metabolismo del farmaco e l'età della placenta. Farmaci liposolubili, non ionizzati e a basso peso molecolare (minore di 700 dal ton) attraversano facilmente la placenta ed entrano nella circolazione fetale. Questo è il caso della maggior parte dei farmaci per la cura del glaucoma, che hanno un peso mole colare tra 90 e 390 dalton. Una volta entrate nel circolo fetale, le molecole possono essere quindi escrete per via renale, polmonare o cutanea nel liquido amniotico, e da qui essere poi riassorbite per ingestione, incrementando pertanto il periodo di esposizione del feto al farmaco.

Diversi sono i motivi per cui risulta molto difficile quantificare il grado di rischio che una certa molecola ha per il feto. Innanzitutto, gli studi teratologici sono condotti su ani mali da esperimento che hanno un metabolismo per i farmaci differente da quello umano, e sono quindi eseguiti utilizzando concentrazioni molto maggiori di quelle impiega te nella pratica clinica. Inoltre, la teratogenicità dipende dal periodo di esposizione al farmaco. Il primo trimestre di gravidanza non solo è il momento più rischioso a causa delle principali differenziazioni, ma è anche quello più difficile da controllare in quanto inizia generalmente prima della stessa diagnosi di gravidanza. Il secondo e il terzo trimestre sono anch'essi a rischio perché è durante questo periodo che si differenziano il sistema nervoso centrale, quello endocrino e i sistemi genitale e immunitario. Anche il periodo del parto non è esente da rischi: infatti in questo momento il principale sistema di metabolismo ed eliminazione dei farmaci diventa quello epatico e renale del neonato, che essen do parzialmente immaturo può favorire e prolungare gli eventuali effetti collaterali. I risultati degli studi di teratogenicità non sono pertanto di grande aiuto nella pratica clini­ ca e spesso non forniscono risposte esaurienti. Per quanto riguarda il timololo, nella scheda tecnica viene riferito che "studi di teratogenicità con timololo in topi e conigli a dosi fino a 50 mg/kg/die (50 volte la dose orale massima raccomandata nell'uomo) non hanno dimostrato segni di malfo mazioni fetali. Sebbene a questi dosaggi si sia rilevato un ri tardo dell'ossificazione fetale, non sono stati osservati effetti indesiderati sullo sviluppo postnatale della prole". La scheda tecnica della dorzolamide cita che "nel coniglio so no state osservate malformazioni dei corpi vertebrali nei piccoli di femmine trattate con dosi tossiche associate all'acidosi metabolica", e in modo simile quella della brinzolamide afferma che studi "...nei ratti hanno mostrato un'ossificazione lievemente ridotta del cranio e dello sterno dei feti da madri cui è stata somministrata brinzolamide alla do se di 18 mg/kg/giorno (375 volte la dose oftalmica racco mandata nell'uomo), ma non a dosi di 6 mg/kg/giorno". Viceversa "negli studi condotti sugli animali, la brimonidina tartrato non ha dimostrato effetti teratogeni, permttendo così, a differenza delle altre molecole, di classificare negli Stati Uniti il farmaco in classe B, e cioè tra quelli che, nonostante l'assenza di studi controllati sull'uomo, non hanno mostrato rischi per il feto in studi controllati su animali. Analogamente, con il latanoprost "non è risultato nessun potenziale teratogeno".

Purtroppo l'assenza di sperimentazioni sull'uomo (indubbiamente giustificata!) impone un atteggiamento di prudenza nell'impiego di tutte le molecole. Così nelle schede informatiche di dorzolamide e latanoprost viene escluso l'uso in gravidanza, mentre in quelle di timololo, brinzola mide e brimonidina questo "...deve essere riservato a giudizio del medico solo ai casi di assoluta necessità o ai casi in cui il potenziale beneficio per la madre giustifica il potenziale rischio per il feto", delegando pertanto la totale responsabilità al medico.

Fortunatamente alle difficoltà relative al trattamento ipotonizzante viene in aiuto la natura. Infatti durante la gravidanza, e specialmente durante il secondo e il terzo trimestre, la tensione intraoculare tende a ridursi a causa degli aumentati livelli di progesterone, che agendo come antiglucocorticoide determinerebbe un incremento della facilità nell'apparato di deflusso. Di conseguenza, in una buona parte dei casi è possibile eliminare la terapia, accettando anche il compromesso di una pressione superiore a quella target per il periodo circoscritto della gravidanza.

Tuttavia, in presenza di una pressione intraoculare eccessiva e potenzialmente pericolosa per la funzione visiva anche nel breve termine, è doveroso istituire un trattamento ipotonizzante. Una terapia medica a questo punto, viste le considerazioni e le stesse avvertenze presenti sulle schede informative, non deve essere la prima scelta. In questo caso, dove fattibile, è meglio optare per terapie più sicure come la laser trabeculoplastica. Questa consente di ridurre la tensione oculare a valori "sicuri" in un'elevata percentuale di casi; se poi questa efficacia non dovesse durare nel tempo, è sempre possibile reimpostare la terapia medica alla fine della gravidanza.

Vi sono tuttavia occhi nei quali il trattamento laser non è possibile, o casi che presentano una scarsa risposta ipotonizzante. In questi casi le opzioni consistono nel mantenere la terapia medica con i suoi potenziali rischi o nel decidere per la terapia chirurgica. La risposta in realtà non è semplice: infatti, anche la chirurgia presenta dei potenziali rischi in gravidanza legali all'uso di anestetici, alla posizione supina e alla terapia postoperatoria. Dai dati disponibili in letteratura, riguardanti soprattutto le anestesie per interventi dentari o dermatologici, si evince che l'11- 23% delle gestanti subisce un'esposizione ad anestetici locali durante la gravidanza, fatto che, come emerso in uno studio multicentrico retrospettivo, non comporta malformazioni fetali. Tutta via, mentre l'impiego della lidocaina non sembra dare luogo a effetti collaterali, la bupivacaina produce una bradicardizzazione fetale. Pertanto, un'anestesia topica con lidocaina è sufficientemente sicura da poter essere impiegata durante la gravidanza anche se, come regola generale, durante il primo trimestre è meglio evitare di esporre il feto a qualsiasi potenziale agente teratogeno. Ovviamente durante la chirurgia bisogna evitare l'impiego di antimetabolici, e cioè di 5-fluorouracile o di mitomicina C. Anche la posizione supina tradizionalmente impegnata durante gli interventi de ve essere evitata in quanto, durante il secondo e il terzo trimestre, può dar luogo a compressioni da parte dell'utero sull'aorta o sulla vena cava o a reflusso gastroesofageo. È dunque da preferire una posizione più laterale, perciò più confortevole e meno a rischio. Infine, esiste il rischio della terapia postoperatoria. Dopo chirurgia filtrante vengono generalmente impiegati farmaci antibiotici e steroidei. Dal momento che non risulta associate a complicanze fetali, dopo il primo trimestre l'eritromicina sembra essere sufficientemente sicura. Analogamente, l'impiego di steroidi sistemici o locali non sembra controindicato, anche perché essi vengono comunemente utilizzati alla fine della gravidanza per stimolare lo sviluppo polmonare fetale. Pertanto, in caso di necessità la scelta chirurgica sembra essere sufficientemente sicura e può essere presa in considerazione come valida e migliore alternativa a una terapia medica complessa; questo deve essere ben spiegato alla donna, chiarendo in modo esauriente i vantaggi e i limiti di ciascuna scelta.

Se l'opzione chirurgica per un motivo o per l'altro non è accettata, sempre nei casi di assoluta necessità, è possibile rivolgersi alla terapia medica, optando per le molecole più sicure per il feto. In tutti i casi bisogna istruire la donna alla manovra di occlusione dei puntini lacrimali o almeno di chiusura delle palpebre per un minimo di 5 minuti subito dopo la somministrazione. Infatti, è stato dimostrato che con queste semplici tecniche è possibile ridurre la concentrazione ematica di una molecola di circa il 70%, minimizzando così l'esposizione del feto. La totale assenza di infor­mazioni riguardanti la tossicità fetale, la teratogenicità e il passaggio placentare nell'uomo rende però rischioso l'uso di tutte le molecole soprattutto nel primo trimestre di gravidanza, durante il quale ci si dovrebbe astenere dal pre­scrivere qualsiasi farmaco, anche quelli che in modello animale non si sono mostrati teratogeni come la brimonidina e il latanoprost. Nel secondo e nel terzo trimestre, sotto la totale responsabilità dell'oculista, possono essere impiegati dei farmaci limitando l'uso (per motivi legali) a quelli che non presentano un divieto specifico nelle note informative, cioè al timololo, alla brinzolamide e alla brimonidina. Tuttavia, i potenziali effetti sistemici della brimonidina evidenziati in età pediatrica (ipotensione, bradicardia, ipotermia e apnea) impongono uno stretto monitoraggio fetale per evitare complicanze maggiori.

 

Allattamento

 

Così come possono attraversare la placenta, i farmaci ipotonizzanti possono concentrarsi nel latte materno ed essere assorbiti dal neonato durante l'allattamento. In generale tutte le molecole di ridotto peso molecolare (inferiore a 200 dalton), in forma non ionizzata e liposolubile, possono passare facilmente nel latte materno. Tale passaggio, tuttavia, avviene solo per la quota non legata a proteine plasmati che, infatti in generale la concentrazione di farmaco nel latte difficilmente eccede 1'1-2% di quella utilizzata dalla ma dre. Inoltre, bisogna ricordare che il latte materno è lieve mente più acido (pH 7-7,6) del plasma (pH 7,4) e pertanto in esso saranno più concentrati i composti basici rispetto a quelli acidi.

È stato dimostrato che il timololo si concentra nel latte a li velli maggiori rispetto a quelli raggiunti nel plasma, poten do così indurre un effetto beta-bloccante nel neonato. Per contro, l'acetazolamide è presente nel latte con una concentrazione pari a un terzo di quella plasmatica e la quantità di farmaco in circolo nel neonato dopo allattamento è molto bassa, rendendo sostanzialmente trascurabili i potenziali problemi respiratori, renali o epatici. La terapia con questa molecola è pertanto compatibile con l'allattamento, così come affermato dall'American Accademy of Pediatrics, che ha anche approvato l'uso del timololo, sebbene sulla sche da informativa appaia l'avvertenza che "...a causa delle potenziali reazioni indesiderate serie causate dal timololo in bambini in allattamento, si deve decidere se sospendere il farmaco o l'allattamento, tenendo conto dell'importanza del farmaco per la madre". Viceversa non sono noti i poten ziali problemi connessi con l'uso di dorzolamide o brinzolamide, che però producono un rallentamento della crescita in topi allattati da madri trattate con elevate dosi di farmaco. Infatti, nella nota informativa viene detto che "non è no to se la dorzolamide venga escreta nel latte materno... non deve essere usata durante l'allattamento" e "non è noto se la brinzolamide sia escreta nel latte umano, comunque questa sostanza è escreta nel latte di ratto. Si raccomanda viva­ mente di evitare l'uso di brinzolamide durante l'allatta mento". La brimonidina presenta controindicazioni specifiche per l'uso in infanti sotto i 2 mesi di età per possibili bradicardia, ipotermia, ipertensione, ipotonia o apnea. Data l'incertezza della reale quantità trasmessa al neonato con il latte, se ne sconsiglia l'impiego in madri in allattamento. Questo è riportato nella nota informativa che afferma che "non è stato accertato se la brimonidina sia escreta nel latte umano. La sostanza viene escreta nel latte dei ratti in allattamento. La brimonidina non deve essere utilizzata dalle donne che allattano". Analogamente, il latanoprost può essere assorbito dal lattante in quanto il farmaco viene escreto nel latte materno. Anche qui la nota informativa ne sconsi glia l'uso sottolineando che "il latanoprost e i suoi metaboliti possono passare nel latte materno e quindi il farmaco non deve essere usato nelle donne che allattano o l'allattamento deve essere sospeso".

In effetti, il trattamento delle donne glaucomatose durante il periodo dell'allattamento non è così critico come du rante la gravidanza. Infatti in questo periodo, laddove necessario e specialmente in presenza di terapie multiple, è possibile proporre l'astensione dall'allattamento evitando così tutti i rischi per il neonato. Viceversa, si può impostare una terapia locale nei casi in qui la madre dovesse esprime re l'assoluto desiderio di allattare ed è necessario mantenere il controllo tensionale. In tal caso, come durante la gravidanza, è opportuno per motivi legali limitare la selezione ai soli farmaci che presentano nella note informative una con troindicazione relativa e non assoluta all'allattamento, e questo è il caso del solo timololo. Per ridurre al minimo i potenziali rischi è sempre necessario associare l'occlusione dei puntini lacrimali o la semplice chiusura delle palpebre per almeno 5 minuti dopo l'instillazione delle gocce ipotonizzanti, ed è preferibile impiegare formulazioni in gel che riducono al minimo il passaggio in circolo. Inoltre, dal momento che il picco di concentrazione nel latte materno si verifica da 30 a 120 minuti dopo la somministrazione, è preferibile che l'applicazione delle gocce avvenga immediatamente dopo l'allattamento. In tutti i casi è suggeribile un at tento monitoraggio del neonato mirato a prevenire eventuali complicanze da eccessivo blocco dei recettori beta quali la bradicardia o l'apnea.

 

(ultimo aggiornamento febbraio 2018)