Oftalmopatia Basedowiana      

A cura del Dott. Fabio Amorelli

    

    

Premesse sull'ipertiroidismo

Le malattie della tiroide colpiscono il 50-60 % della popolazione e hanno quindi un’alta incidenza.

L’incidenza maggiore è data dalla patologia nodulare, seguita poi dall’ipertiroidismo.
L’esame cardine per fare diagnosi d’ipertiroidismo è la scintigrafia, eseguibile sia con iodio che con tecnezio. Quest’ultimo è preferibile perché meno dannoso in quanto il tecnezio non entra nel processo di "fabbricazione" degli ormoni tiroidei.
A seconda della capacità della tiroide di captare radioiodio si possono distinguere ipertiroidismi ad alto o a basso uptake.

ALTO UPTAKE:

da patologie autoimmuni:

  1. morbo di Basedow-Graves detto anche gozzo tossico diffuso.

    E’ caratterizzato dalla presenza d’autoanticorpi contro la tiroide. Sappiamo che normalmente sui tireociti sono presenti recettori per il TSH; in questa patologia viene prodotto un recettore anomalo che viene riconosciuto come estraneo dai linfociti.

    Vengono prodotti anticorpi e citochine che contribuiscono all’infiammazione del tessuto. Inoltre gli anticorpi attivano il recettore per il TSH e questo mima il segnale per la formazione d’ormoni tiroidei; ne consegue ipertiroidismo con elevato uptake dello iodio.

  2. Hashitossicosi o malattia di Hashimoto.

    Anche questa patologia è dovuta ad un meccanismo autoimmune contro il recettore per il TSH.

    In genere questa malattia dà ipotiroidismo, ma può dare ipertiroidismo specie all’inizio perché all’inizio prevalgono anticorpi che stimolano il recettore, mentre in seguito c’è prevalenza di anticorpi che inibiscono il recettore, da cui l’ipotiroidismo.

    Nelle forme autoimmuni c’è quindi la possibilità di passare da ipertiroidismo ad ipotiroidismo.

  3. Esistono altre cause di ipertiroidismo ad elevato uptake, che sono però più rare.

Autonomia del tessuto tiroideo: zone della tiroide che non risentono più dei normali meccanismi di feedback. Abbiamo un clone unico o più cloni nella tiroide che si organizzano in aree dette nodulari che diventano autonome e producono molti ormoni tiroidei. Questo genera ipertiroidismo ad elevato uptake.
Quest’ultimo caso viene anche detto gozzo nodulare o multinodulare che è clinicamente indistinguibile da quello autoimmune a meno che non vi sia esoftalmo associato alla patologia autoimmune (oftalmopatia basedowiana: mesoftalmo, retrazione palpebrale, esoftalmo: protrusione dei globi oculari perché s’infiammano i tessuti retrorbitali).

Sintomi d’ipertiroidismo: tachicardia, calo di peso, aumento tono b adrenergico, sudorazione, osteopenia, osteoporosi, dispnea da sforzo, tremori, agitazione.

Assetto bioumorale di questi pazienti: hanno molti ormoni tiroidei circolanti quindi ­ FT4 e a causa del feedback ¯ TSH.
Nella scintigrafia nel gozzo nodulare si possono osservare alcune zone nella tiroide che captano più iodio (a macchia di leopardo), mentre nelle malattie autoimmuni è tutta la tiroide che capta.
Esistono altre forme meno comuni che danno un elevato uptake: forme TSH dipendenti.
La malattia è dell’ipofisi e non della tiroide. C’è un nodulo nell’ipofisi che produce TSH che va a stimolare la tiroide a produrre più ormoni tiroidei.
Elemento diagnostico differenziale: ­ ormoni tiroidei e del TSH insieme.

BASSO UPTAKE:

In questo caso si ha un’elevata quantità d’ormoni tiroidei, quindi un ipertiroidismo, ma nella scintigrafia lo iodio non viene captato.

1) Tiroidite virale: è una forma subacuta detta di de Quervain, ha un’incidenza stagionale. Il virus va a colpire la tiroide scatenando un’infiammazione con conseguente danno al tessuto tiroideo. Il tireocita viene distrutto e gli ormoni tiroidei vengono liberati nei sinusoidi.

Si parla in questo caso di tireotossicosi (liberazione d’ormoni tiroidei perché c’è stata infiammazione e danno ai tessuti senza aumentata produzione da parte dei tireociti) che è un concetto diverso da ipertiroidismo (aumento degli ormoni tiroidei in circolo per aumento della loro sintesi nei tireociti).

Come parametri bioumorali abbiamo ¯ TSH e ­ FT4.

Alla scintigrafia non c’è captazione di iodio perché il tessuto tiroideo è completamente distrutto.
Il paziente si presenta con tutti i sintomi dell’ipertiroidismo, ma ha in più la presenza di dolore a livello tiroideo (non presente nelle patologie autoimmuni), febbre, aumento della VES e del fibrinogeno.
E’ importante differenziare tra ipertiroidismi ad alto o a basso uptake perché la terapia è diversa.

Nella forma virale una volta che la terapia ha fatto effetto (in genere occorrono circa 2 mesi) e l’infezione si è risolta, il paziente guarisce completamente (95 % dei casi); raramente può rimanere un ipotiroidismo (probabilmente causato da una patologia autoimmune di base che il paziente non sapeva di avere).
Nelle patologie di tipo autoimmune invece non c’è mai completa guarigione.

2) Ipertiroidismo da cause iatrogene.

In paziente con aritmie cardiache viene somministrato amiodarone che è un farmaco che contiene molto iodio. Se viene somministrato molto iodio organico la tiroide si difende con il meccanismo dell’escape, cioè interrompendo la captazione dello iodio, ma ad un certo punto lo iodio entra comunque e si ha ipertiroidismo iatrogeno, con conseguenti problemi gravi nei cardiopatici.

Un’altra forma d’ipertiroidismo iatrogeno si può osservare soprattutto nelle pazienti che vogliono dimagrire e fanno uso di pomate anticellulite o farmaci con iodio o Levo-tiroxina, che viene assorbita bene anche dalla cute.
Si può osservare ¯ TSH e ­ FT4.
E’ importante fare una corretta anamnesi in questi pazienti.


Orbitopatia associata a patologia tiroidea

STEFANIA BIANCHI MARZOLI

Dipartimento di Oftalmologia, Ospedale Universitario S. Raffaele, Milano

 

Nonostante i recenti e importanti progressi diagnostici, lo studio e la gestione dei pazienti affetti da orbitopatia tiroidea (OT) presentano ancora oggi notevoli difficoltà. Queste includo­no l'impossibilità di stabilire in maniera certa se la malattia dipenda o meno dall'ipertiroidismo autoimmune, l'incapacità di identificare gli eventi che mettono in moto tutto il meccanismo patologico e, di conseguenza, ancora oggi la difficoltà di stabilire regimi terapeutici di sicura efficacia che vadano oltre le semplici misure palliative. È probabilmente proprio a causa di queste difficoltà di comprensione della malattia che sono tuttora presenti notevoli controversie riguardo il trattamento ottimale, eventuali misure preventive e la possibilità di formulare una prognosi accurata. Ancora più importante è il fatto che, a causa di queste difficoltà interpreta­tive, sono stati negli ultimi anni proposti e attuati diversi procedimenti terapeutici spesso aggressivi e privi di razionale.

Parliamo di OT riferendoci a un processo infiammatorio che interessa le strutture intraorbitarie in associazione a un processo autoimmune che colpisce la tiroide. Graves nel 1786 assegnò a un processo di origine tiroidea un ruolo centrale nell'eziologia della malattia e, più tardi, Von Basedow ne ha descritte le manifestazioni oftalmologiche in maniera completa.

Le manifestazioni cliniche sono estremamente variabili e complesse e una classificazione è necessaria non solo per motivi didattici, ma anche per ottenere una maggiore precisione nell'inquadra­re i pazienti dal punto di vista clinico. La classificazione in uso comprende 7 classi numerate da 0 a VI che definiscono le diverse manifestazioni cliniche in ordine sequenziale temporale e di gra­vità clinica (Tab. 1).

 

Tabella 1.
Classificazione clinica dell'orbitopatia tiroidea

 

La classe 0 corrisponde all'assenza di sintomi e segni, la classe I comprende la presenza di retrazione palpebrale (Fig. 1); nella classe Il si inseriscono i pazienti con sintomi e segni da interessa­mento dei tessuti molli orbitari; la presenza di proptosi superiore a 2 mm rientra nella classe III; l'interessamento dei muscoli oculari estrinseci corrisponde alla classe IV (Fig. 2); la presenza di sofferenza corneale corrisponde alla classe V e, infine, in presenza di un disturbo visivo seconda­rio a neuropatia ottica il quadro è quello della classe VI.

Fig. 1.

Orbitopatia tiroidea di classe I: retrazione della palpebra superiore.

Fig. 2.

Orbitopatia tiroidea bilaterale asimmetrica di classe IV, grado moderato, in fase attiva.

 

Lo spettro di coinvolgimento delle strutture oculari nell'OT va da anomalie molto lievi che possono essere rilevate solo mediante un preciso e attento esame clinico fino a condizioni drammatiche che comportano gravi disturbi della funzione visiva e alterazioni esteticamente deturpanti. La posi­zione delle palpebre, soprattutto quella superiore, viene modificata in quasi tutti i pazienti con OT e la retrazione palpebrale è un segno patognomonico della malattia. I meccanismi responsabili di tale manifestazione clinica non sono ancora del tutto chiari e sarebbero rappresentati sia dal­l'aumento della stimolazione simpatica del muscolo di Muller, probabilmente secondario all'ipertiroidismo, sia dalla fibrosi e dall'adesione dei muscoli retrattori superiori, nonché dall'aumento del tono e dell'attività del complesso muscolare superiore (elevatore-retto superiore) come conseguenza della fibrosi del muscolo retto inferiore. L'aumentata risposta adrenergica generalmente presente nella fase di ipertiroidismo può regredire se la funzione tiroidea viene rapidamente normalizzata. L'infiammazione dei tessuti molli orbitari porta a sintomi e a segni che comprendono: epifora o aumentata lacrimazione, sensazione di corpo estraneo e dolore retrorbitario, iperemia ed edema delle palpebre e della congiuntiva, aumento del volume della ghiandola lacrimale e, infine, infiammazione a livello dell'inserzione dei muscoli oculari retti orizzontali. Questi sintomi sono spesso fonte di notevole disagio per i pazienti ed esteticamente deturpanti. Inoltre, la loro presenza ha un ruolo fondamentale nella definizione del grado di attività della malattia. Nonostante questi presupposti, spesso non viene data loro sufficiente attenzione e importanza durante l'esame e il giudizio clinico. Tra i diversi meccanismi responsabili della congestione orbitaria, oltre all'aumento del volume delle strutture in essa contenute (muscoli oculari e grasso retrobulbare) direttamente correlato al processo infiammatorio, si ritiene che possa essere presente un difetto del drenaggio da parte della vena oftalmica superiore dovuto all'ingrossamento del muscolo retto superiore. A questi meccanismi si attribuirebbe inoltre la responsabilità dell'aumento della pressione intraoculare, che frequentemente si misura in posizione primaria e soprattutto in sovraversione. Durante la posizione di sguardo verso l'alto la contrazione muscolare, in particolare quella del muscolo retto superiore attraverso il quale passa la vena oftalmica superiore, determina un ulteriore ostacolo al drenaggio venoso e al deflusso dell'umore acqueo.

La proptosi, definita come la presenza di un esoftalmo di 2 mm al di sopra dei limiti superiori della norma, è presente nel 20-30% dei pazienti ed è bilaterale nell'80-90% dei casi. Questa estrema variabilità è giustificata dalla presenza di differenze etniche o individuali che fanno sì che i normali limiti superiori posti a 20 mm non siano applicabili a tutti i soggetti e che ovviamente, nella maggior parte dei pazienti, sia difficile riconoscere i valori di riferimento presenti prima che si sviluppi la malattia. È tuttavia importante ricordare che, sebbene l'OT rappresenti la causa più comune di esoftalmo nella popolazione adulta, vi sono tante altre patologie responsabili di proptosi, che devono quindi essere tenute in considerazione nella diagnosi differenziale.

Una limitazione della motilità oculare di modesta o grave entità è presente in circa il 15-20% dei pazienti e rappresenta, dopo il coinvolgimento dei tessuti molli, la seconda manifestazione clinica più frequente. L'interessamento dei muscoli oculari è caratterizzato da un progressivo aumento dimensionale secondario a infiltrazione linfocitaria, proliferazione fibroblastica ed edema seguiti, alla fine, da fibrosi restrittiva. I pazienti con disfunzione muscolare lamentano visione offuscata nello sguardo binoculare, diplopia intermittente o costante e una sensazione di limitazione nel tentativo di guardare soprattutto verso l'alto. Utilizzando metodiche d'indagine altamente sensibili come l'ecografia orbitaria o la TC, è possibile dimostrare l'ingrossamento dei muscoli oculari estrinseci nel 60-90% dei pazienti affetti da OT. Il movimento che più frequente­mente viene limitato è quello verso l'alto, seguito dall'abduzione e poi dall'adduzione e dall'infraduzione. Il meccanismo di questo coinvolgimento disomogeneo che vede il muscolo retto inferiore il primo ad essere colpito è decisamente poco chiaro. La TC è di particolare aiuto nel differenziare l'interessamento muscolare caratteristico dell'OT da quello presente in altre patologie orbitarie infiammatorie o infiltrative. L'ingrossamento dei muscoli oculari nell'OT è caratterizzato da un coinvolgimento del ventre muscolare con risparmio della loro inserzione tendinea, che viene invece interessata in altre forme infiammatorie (Fig.3).

Fig. 3 - Immagine TC che dimostra l'ingrossamento del ventre dei muscoli oculari estrinseci e il risparmio della loro porzione tendinea muscolare.

 

 

L'interessamento corneale è il risultato di una cheratopatia da esposizione e dell'instabilità del film lacrimale dovuta principalmente a eccessiva evaporazione del contenuto acquoso, all'aumento dell'osmolarità e al conseguente incremento della frequenza di ammiccamento. Modificazioni più gravi quali ulcerazione e perforazione sono estremamente rare.

La sofferenza del nervo ottico è il risultato della compressione che avviene a livello dell'apice orbitario per l'ingrossamento dei muscoli oculari e del tessuto connettivo orbitario. Questa com­plicanza è presente in circa il 9% dei pazienti, ma il suo precoce riconoscimento è di fondamentale importanza in quanto il 21 % di questi pazienti va incontro a un grave deficit visivo irreversi­bile. Quando presente, si manifesta bilateralmente nel 65-85% dei casi, anche se in maniera asimmetrica. L'età media dei pazienti con neuropatia ottica è più elevata rispetto a quella dei pazienti con funzione visiva normale. Inoltre, i pazienti con patologie vascolari quali il diabete mellito o i forti fumatori sembrano essere a maggior rischio. I sintomi di neuropatia ottica includono una riduzione dell'acuità visiva, la quale può comparire sia in maniera insidiosa che acutamente. La presenza di neuropatia ottica deve essere esclusa mediante un'attento esame clinico perché lo stesso disturbo lamentato dal paziente può essere erroneamente attribuito a disfunzione corneale o dei muscoli oculari e perché l'acuità visiva è generalmente normale nella fasi iniziali. Vanno quindi ricercate alterazioni del senso cromatico e, soprattutto, la presenza di difetti del campo visivo. L'esame del fondo oculare è frequentemente normale, anche se possono essere occasionalmente presenti edema del disco ottico o pieghe coroideali generalmente attribuite a trazione da parte del nervo ottico e/o all'aumento della pressione intraoculare. La TC è in questo caso fondamentale per dimostrare l'affollamento dell'apice orbitario, che rappresenta uno dei principali fattori che predispongono allo sviluppo di neuropatia ottica nei pazienti affetti da OT.

All'estrema variabilità delle manifestazioni cliniche di OT si aggiunge il fatto che, nel 5-14% dei pazienti, l'OT è monolaterale. Va ricordato che l'OT rappresenta la causa più frequente di proptosi monolaterale, trovando la diagnosi nel 15-30% dei casi. L'aspetto di maggiore importanza è di riuscire ad attribuire correttamente un coinvolgimento orbitario monolaterale a patologia tiroidea soprattutto nei pazienti eutiroidei, escludendo rapidamente altre più rare patologie, in particolare quelle di origine neoplastica. Attraverso un adeguato e approfondito esame, utilizzando metodiche d'indagine quali la TC, non è solo possibile escludere la presenza di altre patologie orbitarie, ma è anche possibile dimostrare, nel 50-90% dei casi, la presen­za di segni di interessamento bilaterale. II meccanismo alla base del coinvolgimento monolaterale è poco conosciuto. È possibile che questo sia il quadro clinico della patologia di più breve durata e che rappresenti quindi uno stadio estremamente precoce di un processo bilaterale. Inoltre alcuni fattori anatomici locali, come per esempio una particolare suscettibilità a un ostacolo al deflusso venoso, potrebbero rappresentare alcuni dei fenomeni responsabili di questa manifestazione clinica.

Un aspetto peculiare dell'OT è che le modificazioni dei livelli degli ormoni tiroidei che comune­mente la precedono o l'accompagnano giocano un ruolo non del tutto chiaro nella patogenesi delle manifestazioni orbitarie. La tireotossicosi da sola è ritenuta di poca o scarsa influenza sul processo autoimmune. Viceversa gli effetti dell'ipersecrezione di TSH o dell'ipotiroidismo sono, secondo alcuni Autori, di estrema importanza nel promuovere lo sviluppo dei segni di orbitopatia. Il meccanismo alla base di ciò è ancora sconosciuto. Una possibile spiegazione vedrebbe uno stimolo, da parte del TSH, alla produzione o alla presentazione di un antigene tiroideo-oculare comune.

Analizzando la relazione temporale tra disfunzione tiroidea e sviluppo di manifestazioni oculari è stato rilevato che il 19,6% dei pazienti presenta manifestazioni orbitarie prima di sviluppare ipertiroidismo, il 39,4% ha sintomi e segni contemporaneamente, mentre il 41,0% sviluppa segni oculari solo dopo che l'ipertiroidismo si è manifestato.

Un altro aspetto della malattia è che risulta difficile prevedere l'evoluzione clinica e la prognosi. Nella maggior parte dei casi la patologia presenta una rapida progressione, raggiungendo il massimo delle manifestazioni cliniche dopo un intervallo relativamente breve (pari a 6-24 mesi) seguito da una prolungata fase di stabilizzazione e, successivamente, da un graduale, ma spesso incompleto, miglioramento.

La difficoltà nello stabilire la prognosi è dovuto alla multifattorialità dei meccanismi patogenetici, alla variabilità interindividuale di elementi anatomici e all'influenza di condizioni vascolari sistemiche. In generale le diverse manifestazioni cliniche hanno un decorso estremamente variabile. La retrazione palpebrale è la manifestazione clinica che meno facilmente regredisce, mentre le conseguenze del coinvolgimento dei tessuti molli tendono a migliorare con il tempo nella maggior parte dei pazienti. L'oftalmoplegia ha minori probabilità di regredire rapidamen­te e spontaneamente, anche se il 30-40% dei soggetti presenta un qualche grado di miglioramento nel corso del follow-up. La proptosi è la manifestazione clinica che ha minori possibilità di regressione.

In uno studio recente è stato valutato un modello matematico automatizzato allo scopo di classi­ficare I'OT e di poterne prevedere l'evoluzione clinica. Lo studio ha considerato il peso dei diversi fattori clinici, locali e sistemici, e demografici che possono influenzare l'entità delle manifestazioni cliniche dell'OT all'esordio e la sua evoluzione. Oltre alla presenza di una maggiore prevalenza di fumatori tra i pazienti con OT, i risultati dello studio hanno messo in evidenza la possibilità di utilizzare un sistema computerizzato per stabilire un'adeguata prognosi relativa all'evoluzione clinica dell'OT.

La necessità di identificare un sistema per un corretto ma soprattutto preciso inquadramento clinico dell'OT è di fondamentale importanza per poter impostare adeguati regimi terapeutici. L'enorme variabilità delle manifestazioni cliniche della malattia e il suo decorso rendono infatti estremamente difficoltosa un'impostazione terapeutica omogenea e unitaria. Nella maggior parte dei pazienti le manifestazioni cliniche dell'OT hanno un decorso che si autolimita, rendendo quindi il trattamento indirizzato solo a risolvere la sintomatologia clinica (lacrime artificiali, elevazione della testa durante il riposo notturno per ridurre la stasi venosa). Indispensabile risulta il riconoscimento della fase della malattia, indipendentemente dal tipo di manifestazioni cliniche. La forma cronica risulta infatti refrattaria a qualsiasi trattamento antinfiammatorio, mentre la forma attiva può trarre un notevole beneficio dalla terapia steroidea, dalla radioterapia o da una combinazione delle due.

L'utilità di una tiroidectomia totale è ancora controversa in quanto, così come la terapia con radioiodio, può in alcuni casi esporre il paziente a rischio di progressione della patologia orbitaria.

La terapia corticosteroidea viene utilizzata sin dagli inizi degli anni cinquanta e la sua efficacia si deve probabilmente a un'azione antinfiammatoria e di immunomodulazione. In generale la terapia steroidea determina una rapida regressione del dolore, dell'iperemia e dell'edema congiuntivale, nonché delle modificazioni a cui vanno incontro i tessuti molli orbitari, e risulta estremamente efficace nel controllo della progressione della neuropatia ottica. Proptosi e oftalmoplegia regrediscono invece in maniera estremamente più lenta e spesso incompleta, e rischiano di peggiorare alla sospensione del farmaco. La terapia steroidea può essere somministrata per via orale, ma recentemente viene data preferenza all'impiego di alte dosi per via endovenosa (metil­prednisolone 1 g/die). Al momento attuale non sono disponibili studi caso-controllo che dimo­strino la sicura efficacia di un unico schema terapeutico.

Il razionale per l'impiego della radioterapia nell'OT si basa sulla notevole radiosensibilità dei linfociti, che sarebbero i principali responsabili delle manifestazioni cliniche della patologia. La radioterapia risulterebbe inoltre efficace nel ridurre la proliferazione di fibroblasti e la loro produzione di glicosaminoglicani. La radioterapia viene in genere somministrata a un dosaggio totale massimo di 20 Gy (2000 rads), che viene suddiviso in 10 frazioni nell'arco di 2 settimane. La pre­senza di retinopatia diabetica è considerata una controindicazione assoluta per tale terapia. Spesso la radioterapia viene utilizzata contemporaneamente a un trattamento steroideo. Questo trattamento determina un rapido miglioramento dell'infiammazione che coinvolge i tessuti molli e quindi esercita il massimo del risultato quando utilizzato nelle fasi precoci della malattia. L'effi­cacia su proptosi e su oftalmoplegia è inferiore rispetto al risultato ottenibile sull'inifiammazione e sulla congestione dei tessuti molli. Inoltre, nei pazienti nei quali la malattia è di lunga durata e si presenta in fase inattiva, caratterizzata da proptosi stabile e fibrosi dei muscoli oculari, questa terapia difficilmente risulta efficace.

Il trattamento chirurgico ha lo scopo di ottenere un aumento del volume orbitario attraverso la decompressione dello spazio adiacente e la correzione della disfunzione dei muscoli oculari e della posizione delle palpebre. Le sette ossa che costituiscono le quattro pareti dell'orbita non consen­tono alcuna espansione in risposta all'aumento del volume del contenuto obitario, ad eccezione dello spostamento in avanti che quindi rappresenta una sorta di decompressione naturale. Oltre un certo grado di proptosi, lo spostamento in avanti del bulbo oculare viene limitato dalla presenza del setto orbitario e dall'azione di agganciamento da parte dei muscoli oculari estrinseci. Da studi condotti in sede autoptica risulta che 1 mm di proptosi corrisponde a un aumento di 0,67 ml del volume orbitario (6 mm di proptosi corrispondono dunque a soli 4 ml di aumento volumetrico). Le indicazioni per la decompressione orbitaria sono: presenza di neuropatia ottica rapidamente progressiva, grave infiammazione orbitaria o dolore, eccessiva proptosi con cheratopatia da esposizione, dipendenza da steroidi e, infine, correzione del danno estetico. L'approccio più utilizzato è quello inferiore, attraverso una tecnica trasantrale o transorbitaria (anteriore), per rimuovere la parete inferiore e quella mediale. La riduzione della proptosi è proporzionale al numero di pareti che vengono decompresse e generalmente si possono ottenere 2-3 mm di decompressione per ciascuna parete (fino a 14-16 mm decomprimendo tutte e quattro le pareti). Nei pazienti con neuropatia ottica è necessario intervenire sulla parete superiore e su quella mediale per ottenere un'adeguata decompressione dell'apice orbitario. La disfunzione dei muscoli oculari peggiora dopo intervento di decompressione; quindi, qualora entrambi gli interventi siano necessari, si deve procedere alla decompressione orbitaria prima di intervenire chirurgicamente sui muscoli. L'esatto istante temporale nel quale eseguire la correzione chirurgica dello strabismo è estrema­mente critico. I pazienti che non necessitano di decompressione orbitaria devono avere una stabilità della funzione muscolare senza terapia steroidea per almeno 6 mesi prima della chirurgia. La recessione dei muscoli oculari può essere responsabile di peggioramento della proptosi, sottoponendo il paziente al rischio di cheratopatia da esposizione. Per questo motivo, in alcuni pazienti che necessitano di chirurgia muscolare e che presentano proptosi, anche se di grado modesto, si potrebbe pensare di eseguire prima un intervento di decompressione.

In conclusione, il trattamento dell'OT - farmacologico, radiante o chirurgico, deve essere scelto dopo precise valutazioni cliniche che consentano l'adeguata classificazione della malat­tia. La corretta selezione del paziente, e soprattutto della fase dell'OT da trattare, consente di migliorare l'efficacia della terapia e di evitare eventuali effetti collaterali locali o sistemici.


Approfondimenti in internet

National Graves' Disease Foundation
Il sito è interamente dedicato al morbo di Graves e mette anche a disposizione un elenco di link ad altre organizzazioni che operano in questo campo.

Royal National Institute for the Blind United Kingdom
Nel sito britannico si possono leggere notizie sul morbo di Basedow.

Thyroid Foundation of Canada
La fondazione canadese dedica alcune pagine web alle malattie tiroidee.

 

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(ultimo aggiornamento febbraio 2018)